Questo fine settimana alla Torre ci sarà la Festa de Bagòin. Un appuntamento che si ricollega a un’antica tradizione contadina nel periodo della festa di Sant’Antonio Abate. Nell’articolo che segue Piero Maroni racconta la storia di questa antica usanza che oggi non c’è più.
di Piero Maroni
“C'era una volta in una casa contadina un lindo porcile in cui viveva spensierato un grasso maiale ignaro del suo destino...”
Eh sì, raccontare oggi l'antica storia del maiale si sconfina nella favola, una favola plurisecolare che per migliaia di anni ha mantenute intatte, o quasi, le proprie procedure, per essere poi soppiantata in tempi relativamente recenti, da una modernità che del passato ha lasciato solo qualche sbiadito ricordo e vani sono i tentativi di ricreare l'antico mondo attraverso feste, sagre e iniziative varie, ciò che non è assolutamente possibile ricreare è la cultura del tempo passato, più esplicitamente: la vita vissuta. E allora senza riandare troppo all'indietro nella storia della vicenda del maiale, raccontiamone quel tratto di favola di cui siamo stati, per un po', spettatori.
Nella casa contadina di questo nostro territorio, fino agli anni 50-60 gli animali erano parte costitutiva di quel microcosmo vitale: buoi e vacche per il lavoro, conigli e pollame di varie specie per le esigenze alimentari, cani e gatti per la salvaguardia della casa da ladri e ratti e, immancabilmente, il maiale, la riserva di carne che abilmente lavorata si conservava a lungo per i bisogni quotidiani e per tante varie occasioni.
Ai primi di febbraio si preparava il porcile, lo si disinfettava con la calce viva, dal soffitto al pavimento, fino a che non diventava tutto bianco. Poi si approntava un giaciglio di paglia fresca, quella dell’ultima trebbiatura e si andava a comperare il maialino, non superiore ai 15 chili, un lattonzolo (e' latòun). Di solito se ne allevava uno per il padrone del fondo, uno per la famiglia e un terzo per venderlo.
Molto curata era l'alimentazione del maiale: raccolta e utilizzo di tanti prodotti ortofrutticoli, patate, mele, barbabietole, resti di mensa, avanzi di cucina, crusca e farina di mais. Durante i primi mesi lo si allevava con gli avanzi di cucina poi, da fine settembre, cominciava l’ingrasso: un mese a zuppa di mais, farina di polenta, ghiande e erba medica bollita e il mese successivo a scarti di patate e farina di orzo. Il tutto una volta o due la settimana veniva trinciato, sminuzzato e cotto in un grande paiolo di ferro: il pastone (la broda), veniva servito al maiale un paio di volte al giorno e trangugiato rumorosamente.
Ma più cresceva e più si avvicinava il giorno fatidico per la sua macellazione. Nel mese di dicembre arrivava a superare abbondantemente il quintale di peso e così, come la tradizione insegnava, dal 30 novembre, ricorrenza di sant'Andrea e, normalmente, fino al 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate, avveniva l'uccisione del maiale (par Sandrivilòin e' cuntadòin l'amaza e' bagòin) o anche (par sant'Andrì ciapa e' bagòin e fal rugì).
Sull' uccisione del maiale tanto si è detto e tanto si è scritto, chi lo ha definito un rito e chi una festa, chi una crudeltà e chi un piacere, più realmente lo si potrebbe invece definire il compimento di un ciclo. Era una di quelle consuetudini contadine, strettamente legate alla terra e ai suoi frutti, che seguivano il ritmo naturale del tempo e delle stagioni. Così come si mieteva il grano o si vendemmiava l'uva quando giungevano a maturazione, così si uccideva il maiale quando le rigide temperature raffreddavano e asciugavano più velocemente la carne e di conseguenza favorivano una più veloce lavorazione.
E' spusaloizi de' bagòin, così era detto il giorno della sua uccisione, la frenesia del momento era tangibile, sin dal mattino presto le donne mettevano a scaldare l'acqua nella caldaia, gli uomini arrotavano i coltelli e quando giungeva il momento anche il maiale avvertiva qualcosa di insolito, tanto che non voleva uscire dallo stalletto, puntava le zampe anteriori ed emetteva urla strazianti. Ma era tutto previsto perchè sin dal suo acquisto tutti sapevano come sarebbe andata a finire, e così qualcuno lo tirava e qualcuno lo spingeva, e senza pietà, fino a sdraiarlo sulla scala di legno posta sul cassone (la matra) sotto il portico della casa, finchè il più esperto con un affilato coltello (e' scanein) lo sgozzava. I fiotti di sangue che sgorgavano copiosi venivano raccolti in una larga zuppiera per essere successivamente gustati previa cottura con abbondante cipolla.
Poi, dopo averlo bagnato con acqua bollente, si procedeva con la raschiatura del pelo effettuata con appositi coltelli corti e panciuti (i panzarot), le setole migliori servivano ai ciabattini che le usavano come guide per introdurre lo spago nei fori per la cucitura delle scarpe.
Appeso infine ad un traliccio per le zampe posteriori, lo si apriva e si asportavano i vari organi senza buttare via niente perché (de' bagòin un s' bota vì gnent), quindi si spaccava in maiale in due parti che restavano appese in un luogo fresco della casa per un paio di giorni, dopodiché si procedeva alla lavorazione delle carni (smet e' bagòin). Il grasso o strutto, liquefatto sul fuoco e messo nella vescica precedentemente asportata, veniva raffreddato e messo in cantina dove doveva conservarsi a lungo perché in cucina sostituiva l'olio ed era l'ingrediente fondamentale per la piadina, mentre i suoi residui venivano schiacciati con una morsa per ottenere i ciccioli (i grasul).
Era questo il momento in cui si preparavano i prosciutti e la pancetta che, tenuti per quaranta giorni sotto sale, venivano successivamente appesi sempre in cantina a una trave; si macinava la carne precedentemente selezionata e la si insaccava nelle budella preventivamente lavate per preparare le salsicce, i salami, i cotechini, le coppe.
Si confezionava il musetto (còpa 'd tèsta) facendo bollire in un pentolone tutte le ossa dalle quali si staccavano i residui di carne che, bolliti, macinati, conditi, venivano insaccati per essere, poi, affettati e consumati per quasi un anno intero (a faès la baèrba us sta ben un dè, a ciapaè mòi us sta ben un mòis, a mazaè e' bagòin us sta ben un an).
E qui termina la favola, letta con lo spirito dell'oggi, a molti parrà di una tragica crudeltà, nei tempi del veganismo, del vegetarismo, delle cliniche e dei cimiteri per cani e gatti, delle relazioni iperaffettive con gli animali domestici, raccontare la morte del maiale sembra un esercizio di puro cinismo, ma ciò di cui parliamo è figlio di un altro tempo, un tempo in cui uomini, animali e natura seguivano lo stesso identico ciclo di vita e di morte, secondo ritmi e consuetudini che altri uomini, in tempi remoti e smarriti nella storia, avevano per loro tracciato.
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